Da Torino a Giverny con un Burgman 650, tra pioggia, vento e tante emozioni

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Domenica 21 agosto 2011: partenza da Torino. Il tempo è quello del viaggio e della scoperta e che gli dèi mi accompagnino. Ho un itinerario di massima: visita alla casa di Monet a Giverny, 75 chilometri a nordovest di Parigi, poi rotta verso i luoghi del D-Day, condizioni meteo delle Normandia permettendo.

La strada da Torino si arrampica verso il Frejus. Poco traffico. Anche nella mente. Due ruote è sensazione di libertà tale che poche altre occasioni permettono di sperimentare. Sono solo con me stesso e il Burgman. Guido dentro i miei pensieri. Mi avvolgo nel vento.

Poi, ecco il tunnel. E’ un buio lungo e crea un certo turbamento. Man mano che i chilometri si susseguono, aumenta il calore, cresce il disagio. Mi fa sentire un intruso nel cuore di pietra del Signore della Montagna.

Appena fuori tutto si fa più leggero con la discesa.

Qualche saluto volante mi arriva dai pochi biker che si incrociano lungo un’autostrada, fortunatamente, quasi deserta. Quel cenno della mano sinistra, semplice e beneaugurante, mi procura sempre una certa emozione. Come riconoscersi tra uguali, in una dimensione diversa: siano essi gli ‘uccelli d’altura’ cari a Bernard Moitessier, o i cosiddetti duri ‘onepercenters’ (quelli puri almeno). Comunque liberi. Non chiusi nelle auto, ma pellegrini del vento. Caldo o freddo, pioggia o altro, diversi nel modo di viaggiare, di sentire la strada, a ogni sobbalzo, dalle ruote alle mani, sotto il cielo, che è tutto nostro.

Verso Lione il traffico aumenta e, in modo esponenziale, anche il caldo, che si fa soffocante. Cavolo! Non ho considerato che una domenica di fine agosto è tempo di rientro dalle ‘grandes vacances’. Le aree di sosta sono prese d’assalto. Non c’è posto all’ombra. I ragazzini strepitano. I genitori anche. Ma in quanti siamo! A ogni svincolo di una certa importanza si formano lunghe code. Le passo a filo della corsia d’emergenza, a 30-40 all’ora, cautamente, ma le passo. Il caldo aumenta. Ma quanti gradi saranno mai! Non oso leggerli sul cruscotto del Burgman. Chissenefrega.

Alla fine della giornata ho calcolato di avere bevuto 2 litri d’acqua e 1 litro di Gatorade.
Màcino chilometri, ma la media rimane molto bassa, il che scombina il piano di viaggio. Maledetto caldo. Solo il Burgman non mostra segni di sofferenza. Non credo di farcela ad arrivare a Giverny nella grande tappa di 842 km che avevo previsto in partenza. Il caldo e il traffico mi stanno sfiancando. Allora, per non pensarci, mi adagio in qualche ricordo. La moto ti fa sentire tutto tuo.

Un’occhiata alla cartina e decido di fermarmi a Auxerre, dopo circa 620 km. Pernotterò da qualche parte e il mattino dopo di nuovo in sella per una visita lampo da Monet a Giverny e poi rotta verso le spiagge dello sbarco in Normandia. Sembra una soluzione discreta. Nonostante tutto mi sento bene, libero, stanco, ma ricco in spirito se non proprio nel corpo. La moto può risultare anche una buona medicina.

Auxerre è deserta. Non un cane per le strade. Mi dirigo verso il centro alla ricerca di un albergo per la notte. Seguo qualche indicazione per gli hotel. Giro e rigiro. Cavolo, ci sono già passato di qui… Ma dove diavolo sono finiti gli alberghi. Sembra uno scherzo. Il Signore dei Viaggi si prende gioco di me? Seguo i cartelli che poi sembrano non portare da nessuna parte. Finalmente ne trovo uno di hotel, ma del tutto casualmente. Un segno che il viaggio prende sempre corpo da sé, non occorrono grandi programmi.

L’albergo non è sul fiume, dove sono passato poco prima, ammirandone la quiete, ma è poco fuori dal centro. Non importa. Adesso desidero solo una doccia e una buona birra.
Hotel des Marechaux, un piccolo tre stelle, una ben riuscita trasformazione di casa patrizia. Speriamo ci sia una stanza libera, il parcheggio interno mi sembra al completo. Una signora pienotta e molto gentile mi accoglie alla reception e con un gran sorriso mi offre così la certezza di una magnifica e fresca notte. Evviva, la camera c’è. E’ bella. Arredata stile impero, come tutto l’hotel. Ogni stanza è contrassegnata con il nome di un maresciallo di Francia. La mia è intitolata a un certo Kellerman, con tanto di ritratto e biografia. Quest’uomo ha attraversato la Storia, dalla rivoluzione a Bonaparte. La camera ha una finestra sul giardino. Non mi sembra vera così tanta pace dopo l’inferno dell’autostrada.
Scendo a scattare qualche foto alle innumerevoli stampe che tappezzano i muri, ovunque, dalla reception alla sala bar, lungo i corridoi, e in una confortevole sala musica con camino e pianoforte a muro. C’è anche una piscina, ma sono troppo stanco e anche affamato per pensare di andare a tuffarmi.

Le signorine della reception mi indicano un bistrot. Lo raggiungo a piedi, attraversando il silenzio di strade vuote. Scatto foto qua e là alle belle case conservate nello stile delle facciate con le travi a vista.

Appena arrivato al pub ordino una prima bière blanche. Wow! Mi sento re padrone della mia libertà. Festeggio nel mio cuore, anche se, forse, riempio un po’ troppo il mio stomaco…
La sera è fresca. Rientrato in stanza, il sonno tarda (ho davvero mangiato troppo). I pensieri si sparpagliano e mi gusto i colori della notte attraverso la finestra aperta sul silenzio.
Al risveglio gran colazione in giardino. All’improvviso vedo uno scoiattolo arrampicarsi lungo il tronco di un albero davanti a me. Corro a prendermi la macchina fotografica in camera.
Mi scapicollo in giardino, ma non c’è verso. Lo scoiattolo è sparito, o meglio, non si fa vedere da me. Ne approfitto per godermi i magnifici alberi che, fitti fitti, sembrano i veri custodi della storia della casa.

E’ tempo di ripartire. Carico le borse sul Burgman e via di nuovo in autostrada verso Giverny. Percorrere la tangenziale di Parigi, alla ricerca dell’uscita giusta, non sarà cosa semplice. D’altra parte è solo un piccolo borgo che vive per la casa di Monet e non sempre è segnato sulle carte a mia disposizione. Ho portato con me il navigatore. Un po’ controvoglia, ma ne approfitto.

Il traffico è molto più scorrevole, anche se circolano i mezzi pesanti. Al Burgman non danno noia. Li sorpasso senza risentire di vibrazioni o sbandamenti. Vivo la strada senza altri pensieri.

A Parigi devo uscire dal boulevard pèriferique per fare il pieno. Sbaglio l’uscita e poi anche l’entrata. Che idiota! Però non sono poi così tanti i distributori e quindi è anche facile sbagliarsi nel traffico parigino. Vabbè…

Appena fuori Parigi vedo addensarsi nuvoloni neri neri. Occorre una sosta rapida per vestire l’antipioggia. Questa volta ci siamo, il Signore delle Tempeste mi ha trovato. Ci incontriamo poco più avanti. Il temporale è più che violento lungo tutti i 70 km circa che mi separano da Giverny, accidenti a lui. La visibilità è scarsissima. L’acqua spesso allaga la carreggiata formando delle larghe pozzangherone e non riesco a leggere bene sul navigatore la via da prendere. Attraverso un paesotto dopo l’altro senza capire bene se sto andando nella direzione giusta. Intanto tempesta sul mio casco a più non posso. I guanti sono marci. Nonostante l’abbigliamento, l’acqua mi penetra lungo il collo. Cavolo! Bastava un po’ meno… Guido con la massima attenzione. In certi punti devo quasi guadare la strada.

Finalmente ecco Giverny, circa 500 abitanti, quattro casette, e l’indicazione per la casa museo di Monet. Speriamo di trovare un alberghetto, sono fradicio.

Se il dio delle tempeste mi insegue, quello dei viaggiatori mi sostiene. Trovo un due stelle, l’unico. Evviva! All’ingresso, dei turisti mi guardano un po’ sorpresi alla vista improvvisa di questo omaccione che gronda acqua. La padrona mi offre una piccola camera e la possibilità di parcheggio custodito. Meglio di così non poteva andare. Scarico il Burgman. Porto in camera le borse su per una scala stretta. Non c’è ascensore. Ridiscendo subito a sistemare la moto. Accidenti al parcheggio: è in terra battuta ricoperta di breccioline ed è pure in pendenza. E’ davvero una gran faticaccia spostare il bestione alla ricerca del giusto assetto, e senza cadere.

Mi sono anche dimenticato di telefonare a casa. Scopro con grande disappunto che il cellulare ha preso acqua. E’ inutilizzabile. Lo smonto. Tolgo la batteria, la passo sotto il phon, ma niente da fare. Vabbè, userò il telefono della camera. Cavolo, non funziona! La padrona non mi permette di usare il suo. Un attimo di panico. Sono isolato e soprattutto a casa chissà cosa staranno pensando senza mie notizie. Non posso farci nulla. Quella megera non mi lascia usare il suo telefono e a Giverny non ci sono altre possibilità. Andrò a cercare un telefono pubblico appena possibile. Quindi?… La cosa giusta da fare è una bella doccia calda e poi una bistecca e patatine, anche se è già pomeriggio.

La pioggia cessa. Le nuvole si diradano. Il cielo si apre e dà respiro a un pallido sole.
Posso gustare in pieno la meraviglia della visita alla casa museo di Claude Monet, dove ha vissuto per più di 40 anni, fino al giorno della morte, creando le sue opere tra le più conosciute.

Tra l’altro riesco a telefonare da un telefono a gettoni del museo. Meno male. Assaporo il momento della visita più che tranquillo. Ci sono molti turisti, tutti molto educati, scivolano tra le stanze, silenziosi e ammirati. Ci si incrocia senza intralcio. Un’inserviente invece continua a seguirmi per impedirmi di fotografare. Pas de photos, pas de photos! Ma che male faccio? D’altra parte non adopero il flash, quindi? Niente da fare. Non mi molla. A questo punto mi ci metto di impegno e, appena posso, fotografo lo stesso, per dispetto. Il risultato sarà anche discreto.

Il giardino di Monet è una sinfonia di colori. Mi cattura gli occhi e il cuore. Difficile descrivere l’andirivieni di emozioni di fronte a tutte quelle varietà di piante e fiori mai visti, almeno da me che non me ne intendo molto. Cammino per i piccoli sentieri che certamente anche il maestro ha percorso. Entro, letteralmente, nei suoi quadri. Mi viene in mente un episodio di Sogni di Akira Kurosawa, quando un ragazzo entra nei quadri di Van Gogh e lo incontra. Ricordo, era Martin Scorsese a interpretare Van Gogh. Per me, quì ed ora, non è proprio la stessa dimensione onirica, anche perché fotografo, fotografo tutto il colore che vedo.

Attraverso il sottopasso che porta allo stagno delle ninfee ed ecco mi affaccio su di un’altra intensa emozione. Mi sento rinfrancato e ripagato di tutta la fatica. Come posso ringraziare per così tanta bellezza?

Acquisto qualche souvenir e rientro in albergo. Ceno e poi una passeggiata per approfittare di qualche scatto ancora a un tramonto dai forti contrasti.

Durante la notte di nuovo pioggia e vento. Spero che la moto non cada. Il terreno era davvero molle. Il rumore dell’acqua sul tetto si fa man mano più dolce. La stanchezza prende il sopravvento.

Decido comunque di cambiare programma, niente Normandia, inutile prendere altra pioggia e altri rischi. Si torna indietro. Studio un percorso sulle statali che mi riporti fino a Auxerre. Basta autostrada, sennò che viaggio è?

Ed eccomi di nuovo in sella al mattino. Smuovere il Burgman dal fango ha richiesto tutta la mia energia e attenzione. I suoi 300 e più chili mi hanno sfiancato ancora prima di partire.
La strada è piacevole. Non piove più! Ogni tanto penso al cellulare foutu, ma non posso farci molto, ormai. Mi fermo per un pieno di benzina e provo a entrare in un piccolo centro commerciale. Neanche a farlo apposta c’è un negozio di telefonia. Spero. Chiedo aiuto, ma l’unica possibilità è acquistare un telefonino da 50 euro che possa leggere la mia scheda. Meglio di niente. Rifletto sul come sia strano sentirsi isolati (perché poi?). Siamo così subordinati a queste macchinette che spegnamo l’ascolto e il cuore, il sentimento, tutto a vantaggio di cosa? Non saprei. Tant’è.

Corro corro lungo le statali, sempre attento agli autovelox. Ce ne sono davvero tanti, fortunatamente ben segnalati. Mi perdo in questa campagna. Poi all’improvviso si alza un vento davvero impetuoso. Mi sbatacchia la testa da destra a sinistra. Riduco la velocità. Mi trovo spesso a guidare con la moto inclinata. Uffa! Non si può mai stare del tutto tranquilli a godersi il viaggio, ma forse il bello sta proprio in questo, nell’affrontare ciò che viene, quando e come si presenta. E’ lo spirito del viaggio, in sé e per sé. Il turismo è altra cosa. Questo penso, mentre mi fumo una sigaretta tenendo la moto ferma il più possibile sotto le raffiche di un vento davvero impietoso. C’è da dire, a suo merito, che ha cacciato la nuvolaglia nera che mi ha perseguitato il giorno prima. Bene così.

Arrivo a Orléans. Vado in centro, proprio dov’è la statua della pulzella, in Place du Martroi.

Diamine, che idea chiamarla piazza del martirio. Alla base della statua equestre, tutt’intorno, c’è in bella mostra anche un bassorilievo con il racconto del martirio nel dettaglio. Ma allora è una mania! Vado a mangiare un boccone. No! Anche il caffè in piazza si chiama ‘del martirio’. Ma insomma basta! Lasciatela riposare in pace.

Quattro passi, due foto – la cattedrale di Orléans è imperdibile – e via. Si torna a Auxerre. Il vento è cessato. Rimane la smania di andare, di partire, di arrivare non so dove e ripartire anche.

Stavolta mi fermo lungo il fiume. Vedo ormeggiati degli house boat. Sarebbe bello un giorno risalire la corrente dei fiumi di Francia su questi barconi.

Il mattino dopo si torna a casa.

Mi sveglio e piove. Antipioggia e via. Piove e poi smette. Ricomincia il caldo non appena cessa la pioggia. Afa. Mi fermo e tolgo l’antipioggia. Respiro. Oh no, ricomincia a piovere forte. I guanti sono marci. In un autogrill compro dei guanti da lavoro e una commessa gentile mi offre anche dei sottoguanti in lattice. Che meraviglia, ho finalmente le mani asciutte. Vado avanti. Sono indolenzito un po’ dappertutto. Ho male alle mani e al fondoschiena. Mi fermo spesso. Fumo. Bevo caffè. Alle mie spalle di nuovo i nuvoloni. Via di corsa. Altra strada. Poi sosta e ancora i nuvoloni. Stavolta non mi freghi, non mi acchiappi più, caro il mio signore delle tempeste. Vado a sud, torno a casa!

Arrivo a Torino che è buio. Ho il magone. Il tempo del viaggio e della scoperta di qualcosa dentro è finito. Almeno per ora.

Dario Arpaio


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